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mercoledì 12 novembre 2014

"L'Armadio della vergogna"

Franco Giustolisi se n'è andato come avrebbe voluto. Combattendo fino all'ultimo per quello in cui ha creduto per una vita. Nella stanza dove è stato curato c'erano libri, fogli con appunti, un dizionario e l'inseparabile Settimana enigmistica. Da lì, dal letto che è stato il suo ultimo studio, il suo ultimo tavolo di lavoro, ha dettato lettere, fatto telefonate, immaginato azioni future.

Con me, che con lui ho iniziato a lavorare trent’anni fa e ho scritto due libri, ha parlato per l’ultima volta la settimana scorsa. Poche parole pronunciate con un filo di voce. Ma ha voluto essere sicuro che avessi ben capito, era cosciente che era il nostro commiato: “Pier Vittorio prendi in mano tu…”. Si riferiva a un'iniziativa per parlare della cosa a cui ha dedicato vent'anni di passione professionale, politica e civile. Franco voleva giustizia per quella che chiamava la più grande tragedia vissuta dal popolo italiano. Voleva giustizia per i 15-20 mila civili uccisi dai nazisti e dai fascisti tra il 1943 e il 1945. Per i loro figli, i loro mariti, le loro mogli, i loro fratelli.

Una battaglia combattuta soprattutto sulle pagine dell' Espresso . Poi con un libro, l'Armadio della vergogna. Mille dibattiti in tutte le parti d'Italia. Feroci polemiche con chi alla sua sete di giustizia frapponeva esitazioni o piccoli interessi di parte.

Fu lui, insieme ad Alessandro De Feo, a parlare per primo di quell’armadio della procura generale militare scoperto per caso nel 1994 e nel quale, da 34 anni, erano chiusi i fascicoli sulle stragi nazifasciste. Fascicoli con cognome, nome e grado dei responsabili di tutti quegli omicidi chiusi là dentro per non turbare i nuovi equilibri internazionali degli anni Cinquanta. Lo battezzò l’armadio della vergogna perché capì subito il terribile carico di negligenze e omissioni che la scoperta di quei fascicoli portava con sé.

C’erano le indagini sui responsabili delle stragi più famose come Marzabotto e Sant’Anna di Stazzema e di quelle di cui non si era mai parlato tanto. Eccidi come quelli di Monchio, Vinca, Cercarolo… Franco raccolse documenti, andò sui posti, conobbe i sopravvissuti, si fece raccontare, diventò tutt’uno con la rabbia di chi era rimasto senza giustizia, di chi aveva visto morire padri e madri senza che mai nessuno si preoccupasse di cercare gli assassini. La sua battaglia è stata senza quartiere. Perché Franco era uno che le cose non le mandava certo a dire. Pensare, dire e agire era, per lui, un tutt'uno.

Il nostro primo e impegnativo lavoro insieme fu un'inchiesta sulle carceri Italiane. Eravamo tutti e due all'Espresso. Lui un quasi sessantenne professionista noto e affermato, già a Paese Sera, al Giorno e alla Rai, a Tv 7. Io un cronista poco più che trentenne che ancora molto aveva da vedere del mondo. Franco mi portò per carceri con un piglio che non dimentico. Entrava nella cella di un condannato per mafia e gli chiedeva: "La mafia esiste?". Affrontava banditi pluriassassini come fossero conoscenti da bar. Con una calma, una serenità e una schiettezza che non immaginavo si potessero avere in carceri speciali come quelli. Da quel viaggio nacque un’inchiesta per il giornale e il libro Al di là di quelle mura. E poi un altro libro, la storia del capo brigatista Alberto Franceschini, Mara Renato e io.


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