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sabato 29 settembre 2018

L'ITALIA FA SCHIFO! Andate all'estero... [SUB ENG]

Impresionante, Argentina en el mundial de voley, le robaban el partido y...

domenica 23 settembre 2018

E' Stato Morto Un Ragazzo - Storia di Federico Aldrovandi

mercoledì 19 settembre 2018

Perpignan - Espinal

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venerdì 14 settembre 2018

InsolvenzFest 2015 - La corruzione e la concorrenza

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Le Frecce Tricolori nel cielo di Ferrara

giovedì 13 settembre 2018

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sabato 8 settembre 2018

SUN - Lectio Magistralis di Piercamillo Davigo

venerdì 7 settembre 2018

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martedì 4 settembre 2018

Conto cointestato: di chi sono i soldi? | avv. Angelo Greco | Questa è l...

lunedì 3 settembre 2018

Barbara Balzerani

Quando utilizzo l’aggettivo “partigiano” non mi riferisco solo alla Resistenza italiana, alla guerra contro il nazismo e il fascismo. Utilizzo “partisan” nel suo senso letterale: “chi è di parte” . E’ un riferimento a qualcosa più estesa della lotta di Liberazione italiana. Questo perché la memoria non è un esercizio di analisi imparziale ma un terreno di guerra guerreggiata tra differenti visioni del mondo. Questo libro è un atto d’amore verso una memoria partigiana per impedire che la storia la scrivano soltanto i “vincitori”.
Tutta la storia degli anni ’70 e della lotta armata in Italia è stata ridotta a un solo evento, il rapimento di Moro da parte delle Brigate rosse il 16 marzo 1978 e questa storia è stata completamente trasfigurata. La narrazione ufficiale ha cancellato venti anni di lotte, i referimenti di classe, le conquiste e la prospettiva rivoluzionaria. Ha cancellato tutto quello che succedeva nelle fabbriche dove noi siamo nati e il sostegno degli operai che ci ha permesso persino di fare azioni militari dentro i reparti.
Inoltre il tentativo del potere finalizzato a dimostrare che l’azione è stata inquinata dall’infiltrazione dei servizi segreti.
La deformazione del significato di quella azione è stata resa possibile isolandola dal processo di sviluppo della strategia della lotta armata (dall’attacco alle gerarchie di fabbrica a quello al cuore dello Stato), processo che l’ha resa possibile e necessaria come elemento rilevante in quella fase di scontro. E, oltre alla criminalizzazione delle BR, quella operazione controrivoluzionaria è finalizzata a mettere un’ipoteca per il presente e il futuro, per le lotte attuali. Ossia serve a sequestrare ogni ipotesi di trasformazione dell’esistente attraverso un paradigma semplicato: i processi rivoluzionari non sono possibili, non sono interni ai movimenti di massa e quasi sempre infiltrati da forze occulte. Tutto è stato fatto per impedire la storicizzazione di venti anni di storia italiana. E’ come se, dopo quaranta anni dagli avvenimenti, si trattasse di fatti di cronaca, di attualità, come fossero accaduti ieri e quindi fosse impossibile farne una ricostruzione storica. Questo impedisce soprattutto di comprendere il contesto politico e sociale in cui sono avvenuti e che potrebbe spiegare come siano stati possibili circa 15 anni di guerriglia comunista in un paese come l’Italia, con la sua democrazia parlamentare e la sua economia a capitalismo avanzato. Oggi questa semplice questione è oscurata da mille falsi intrighi e misteri perché avrebbe la capacità di fare luce sulle responsabilità politiche del Pci e della Dc in quegli anni di scontro sociale e sulla ristrutturazione capitalistica che presto si è rivelata per quello che era: disoccupazione, precarizzazione, maggiore sfruttamento e rimessa in causa di tutte le enormi conquiste che sono state ottenute grazie alle lotte degli anni ’70. E per questo continua a essere necessario lasciare nell’ombra non solo quelle politiche reazionarie ma persino le responsabilità delle forze politiche durante il sequestro di Aldo Moro.
In ogni caso adesso tocca a voi, alle nuove generazioni, agire politicamente. Il mondo in cui siete immersi non è sempre esistito così com’è. Per questo è importante restituire una memoria partigiana e trasmetterla, a voi in particolare. Il mondo attuale è il risultato di uno scontro e di una sconfitta, che è stata internazionale. Quello che vediamo oggi, ovunque poggiamo lo sguardo, è una involuzione delle condizioni di esistenza di milioni di persone e dello stesso pianeta. Ma non è stato sempre così. Dovete conoscere cosa è accaduto prima. Dovete comprendere dove tanti processi rivoluzionari del ‘900 si sono arenati. E non per mancanza delle loro ragioni, perché è certo che la ragione non è dei “vincitori” e lo stato del mondo attuale lo dimostra. Un mondo in cui il profitto capitalistico sta mettendo in pericolo la vita stessa eppure dove è diventato tanto difficile lottare e, soprattutto, vincere. Dovete imparare a essere partigiani, prendere parte. E la parte giusta è sempre la stessa, non è cambiata! Ma non si può capire il presente a partire dal 2017, bisogna tornare indietro con la memoria.
Da parte nostra, l’origine della nostra cultura politica (prima ancora del passaggio alla lotta armata) si colloca nello scontro di una classe operaia diversa da quella tradizionale, quella che è insorta a piazza Statuto a Torino nel 1962. In quelle giornate è nata una nuova conflittualità perché quegli operai, che venivano in gran parte dal sud d’Italia, che erano immigrati, che non erano inquadrati nella logica di partiti e sindacati che li condannavano come provocatori, erano l’espressione di una classe operaia nuova. Che voleva tutto. Che voleva il sole, la fine dello sfruttamento, che voleva entrare nei bar di Torino senza farsi cacciare, che non faceva coincidere i propri interessi con quelli del padrone, che quindi non poteva accontentarsi delle briciole ma doveva cambiare lo stato delle cose. Che aveva una radicalità nei suoi modi di esprimersi e lottare perché poneva la questione del potere. Se questa classe operaia non fosse esistita, tutto il resto non sarebbe esistito per come l’abbiamo conosciuto. Non ci sarebbero state neanche le Brigate Rosse.
Dans le livre…
Si, i fatti del Cile sono stati fondamentali per le mie scelte future. Per la definitiva frattura con la politica del Pci che, di fronte al colpo di stato contro il governo di Allende, un governo legittimato dal voto popolare, portò a compimento l’alleanza con la Dc, cioè con il partito che per noi era il partito della reazione, dei padroni, dello stragismo e del terrorismo di Stato. Per il movimento rivoluzionario quel massacro significò la definitiva sfiducia nei confronti della democrazia borghese e la messa all’ordine del giorno della necessità della lotta armata se volevamo difendere la nostra vita e continuare a lottare. Ma in “Compagna Luna” non ho voluto fare la storia di quegli anni, né un saggio di politica. Penso siano gli storici e gli studiosi a doverlo fare. Io ho voluto restituire l’interezza della mia esperienza di vita che è simile a quella della maggior parte degli altri militanti delle Br. Per restituire il percorso e il senso di una scelta politica. Questo perché ci hanno descritti come delle sagome di cartone, delle marionette. Nati e cresciuti dentro la parentesi della lotta armata, senza una provenienza di classe, una famiglia d’origine, senza esperienze di lotta, senza un percorso nel movimento rivoluzionario. Come fossimo venuti da Marte, del tutto estranei alle dinamiche politiche e sociali del contesto italiano e internazionale che, come degli invasati, un giorno ci siamo messi a sparare, così senza ragione. Degli alieni dall’origine misteriosa. Per questo ho scelto di raccontare la mia vita a partire dall’infanzia, per togliere le parentesi, restituire l’interezza di un percorso e la faccia di tanti militanti delle Br, tanto simile alla mia. Come per dire: “Sono io, sono sempre stata io nelle differenti stagioni della mia vita”. I miei compagni sono cresciuti nelle lotte di fabbrica, nelle lotte dei quartieri proletari, nei movimenti degli studenti. Non c’è stato un solo intellettuale famoso tra noi, a fronte di una capacità incontestabile di analisi delle trasformazioni dello Stato e della globalizzazione dell’economia. E non c’è stato un solo piccolo-borghese stravagante in cerca di avventure né qualche militante di origine e percorso sconosciuti. Ecco perché è importante ricostruire chi siamo, da dove veniamo, che esperienze abbiamo accumulato perché il ritratto che hanno disegnato su di noi è inaccettabile e ha messo una coltre di insensatezza e ambiguità sulla nostra storia, che è la storia di una fortissima avanzata rivoluzionaria nel mio paese.
Tutte le speranze e le lotte di un’epoca in cui si è pensato di migliorare la propria condizione sociale col passaggio dall’agricoltura all’industrializzazione, si sono rivelate un fallimento. In un certo senso è lo stesso fallimento del socialismo a livello internazionale perché, nella sostanza, non si è riusciti a costruire un sistema di produzione differente da quello capitalistico. Fondare la possibilità d’una transizione al comunismo sullo sviluppo illimitato delle forze produttive, ha mostrato tutta la sua debolezza: Tchernobyl è là a dimostrarlo. Questa è stata un’illusione che ha contagiato tutti i movimenti rivoluzionari, cioè l’illusione che il capitalismo ci avrebbe lasciato in eredità la tecnologia, gli strumenti tecnici che ci avrebbero liberato dalla fatica, dalla necessità del lavoro come fosse un passaggio automatico. Ma quello che funziona all’interno del sistema capitalistico, finalizzato al massimo profitto, non può funzionare in un sistema diverso che, al contrario, dovrebbe perseguire la buona vita di tutti. Il ‘900 si dice sia stato il secolo delle guerre e delle rivoluzioni. Nonostante i fallimenti c’è da imparare molto da quello che ci ha insegnato visto che oggi rimangono solo le guerre.
Tout au long du livre…
Io non ho partecipato al movimento femminista perché quello che mi interessava in quegli anni era la rivoluzione per il comunismo, lo scontro di classe e non quello di genere. Perché, secondo l’influenza del pensiero tradizionale, la politica a cui ho aderito era quella dei “due tempi” secondo la quale era il rovesciamento politico ed economico del potere della borghesia la condizione indispensabile per poter rivoluzionare anche gli altri rapporti sociali, compresi quelli tra i sessi. Pensavo questo nonostante sapessi, e l’ho anche scritto nel libro, che le donne che hanno partecipato attivamente alle rivolte del passato sono state in seguito relegate nei ruoli subordinati di sempre. Questo è successo ovunque, nella tradizione comunista italiana nella resistenza antifascista come nella lotta anticoloniale d’Algeria. Io ero dunque ben cosciente della contraddizione di genere ma non mi riconoscevo nella politica delle compagne che si allontanavano dal movimento rivoluzionario per costruire gruppi femministi, interclassisti, pacifisti, elitari. Il patriarcato è senza dubbio un pilastro del sistema capitalistico, ma è appunto del sistema capitalistico che stiamo parlando. Il movimento di emancipazione delle donne, nella sua espressione maggioritaria, non era interessato alle differenze di classe, non portava avanti una lotta contro il capitale e questo è stato un fattore discriminante per me.
C’est una défaite …
E’ vero, dopo l’82, malgrado la catastrofe, i pentimenti e i tradimenti, malgrado gli arresti, i morti ammazzati e la tortura, c’erano ancora compagni pronti a entrare nelle Brigate Rosse. Abbiamo continuato a combattere pensando che fosse necessario resistere fino a superare una fase negativa. Non avevamo capito che si trattava della fine di un’epoca, che il 20mo secolo stava finendo. Che il paradigma rivoluzionario del 20mo secolo non era più in grado di battere i piani di ristrutturazione capitalistica, a partire dalla fabbrica post fordista, alle delocalizzazioni della produzione, al primato della speculazione finanziaria, alla guerra permanente. Le idee sul partito, sullo stato, sulla conquista del potere e la dittatura del proletariato, a fronte di una transizione al comunismo che non si è realizzata da nessuna parte, non avevano avuto gli esiti sperati. Ma tutto questo non era facilmente comprensibile dentro una condizione che non lasciava alcuna libertà di scelta oltre alla resa. Io, in ogni caso, non l’ho compreso e il fatto che ci fossero ancora compagni disponibili malgrado la durezza della lotta – che in quel periodo fu veramente terribile – ha contribuito a farci pensare che bisognasse resistere per superare un momento di così grande difficoltà. Non avevamo capito che fosse finita. Perché quel movimento operaio e proletario che ci aveva fatti nascere e sviluppare, che ci aveva sostenuto, era stato battuto, era finito e anche noi eravamo finiti insieme a lui. Noi che siamo stati l’espressione di avanguardia di quella figura sociale non potevamo che morire. Ma non era facile chiudere un’esperienza politica come la nostra. Non potevamo dire: “La nostra storia finisce qua” e tornarcene a casa. Avevamo centinaia di compagni in galera con pene pesantissime da scontare. Che potevamo fare? Arrenderci allo Stato? Il nostro era stato uno scontro del tipo “tutto o niente”, senza mediazioni. O si vince o si perde. E perdere significava perdere tutto, l’intera partita, senza tempi supplementari. Per quelli rimasti – e io sono stata una di loro – era estremamente difficile governare un passaggio come quello. E, in effetti, non è stato governato. La nostra debolezza era più politica che militare. Nell’81 abbiamo organizzato tre sequestri contemporaneamente, l’anno dopo abbiamo dichiarato guerra agli USA col rapimento di un generale americano, eroe della guerra del Vietnam! Ma la nostra proposta politica non era più all’altezza dello scontro che conducevamo e questo ha avuto una tragica conseguenza su molti militanti. Compagni con cui si era combattuto fianco a fianco fino al giorno prima, che di colpo tradivano. Non bastava definirli bastardi, prendere distanza, imponevano una riflessione politica. Come era stato possibile? Certo, c’era stata la tortura e gli elettrodi sui genitali che possono costringere a dare informazioni. Tutti i rivoluzionari di ogni tempo si sono dovuti misurare con la tortura e i suoi effetti e prendere le contromisure perché i rivoluzionari non sono come i super eroi dei fumetti. Ma tradire, passare nel campo nemico non è come farsi strappare qualche informazione in una caserma. Il tradimento imponeva la soluzione di un problema politico che andava oltre la debolezza dei singoli. Bisognava porsi il problema, in una situazione fin troppo piena di problemi.
Quando ti trovi di fronte al fatto che un avvenire migliore che pensavi fosse vicino, diventi molto lontano, prendere atto della sconfitta è molto difficile. La figura dello sconfitto non è bella da vedersi. Non va di moda. Ti senti dire: ”Sei tu che hai perso, non io”; “Tu hai perso perché hai avuto il torto di fare quello che hai fatto, noi no; noi continuiamo a fare politica come sempre”. Un livello veramente esaltante della riflessione! Ma se non si ammette che la sconfitta è stata di tutti, se non si guarda in faccia la sconfitta, non è possibile capirne le cause, e si può o rinnegare tutto o continuare sulla stessa strada fallimentare. Ripetere le esperienze già fatte in un mondo profondamente cambiato non è certo una grande idea. Ci dobbiamo prendere le nostre responsabilità e ammettere, in tutta sincerità, che abbiamo provato ma abbiamo fallito. E lo possiamo fare senza titubanze perché non è il fallimento di un’ideale ma di parte di una pratica e di una teoria che hanno sostenuto i processi rivoluzionari del ‘900 e che non sono più adeguate alle nuove condizioni. E’ dunque questo che bisogna sistemare e tocca a voi farlo. E se non capite dove il cammino si è inceppato non potrete farlo. Dovete fare un’analisi approfondita per poter portare una critica ancora più radicale al sistema capitalistico. Un sistema basato sull’individualismo, sul consumo indotto, sull’economia del debito, sullo sfruttamento feroce di tutto ciò che esiste, sulla ricchezza in pochissime mani e sulla guerra permanente. E allora bisogna smettere di farlo funzionare e inventarsi forme antisistema basate su condizioni di vita rese possibili più dal governo dei beni comuni che dal mercato. Bisogna rompere la catena degli obblighi che scadenzano le nostre scelte, il nostro tempo, le nostre propensioni, che hanno smesso da molto tempo di migliorarci la vita e sono diventate tante gabbie, tante trappole, tanti mutui da pagare. Bisogna recuperare un valore che a mio avviso è istintivo nell’essere umano: l’autogoverno, ossia la costruzione di una rete di solidarietà, di mutuo soccorso, di messa in comune di beni non solo materiali per poter vivere, studiare, consumare, produrre, lavorare per decisione collettiva e non per imposizione delle leggi del mercato. E’ estremamente difficile ma non impossibile. Qualcosa di simile sta succedendo in Val di Susa, per esempio, grazie agli alti contenuti della lotta ventennale contro la Tav. Certo è che le esperienze non possono essere replicate tali e quali perché riflettono un territorio particolare, persone particolari, una storia particolare. Ma l’idea di fondo ha un contenuto universale su cui vale la pena riflettere ovunque.
Per tornare al libro, è certo che la memoria sia un terreno di guerra. Io non mi considero una scrittrice ma una persona che scrive racconti per ristabilire una comunicazione interrotta e ostacolata. Per uscire dall’isolamento che la prigione procura e che ho cercato di descrivere nell’ultimo capitolo di “Compagna Luna” . Per tastare il terreno e capire se sono veramente sola o se è possibile stabilire un contatto con chi c’era, con chi ha avuto esperienze differenti dalle mie e con chi non c’era, ma è interessato a conoscere. Per cercare punti in comune e combattere l’isolamento di tutti e di ciascuno. Per me il riconoscimento più grande non è un premio letterario ma una comunicazione ristabilita. Sentire qualcosa di comune malgrado le differenze. Verificare che si può essere in tanti a non riconoscersi nel povero pensiero dominante. Per me la difesa di una memoria nel libro ha voluto dire questo. Questo messaggio: io sono questo e metto a disposizione la mia esperienza. Fate quello che volete di quello che sono. Io posso essere generosa e mi aspetto che anche voi lo siate.
https://lundi.am/La-memoire-est-un-terrain-de-guerre


" bisogna spezzare la catena degli obblighi che ritmano le nostre scelte, il nostro tempo, i nostri propensioni, che da tempo hanno smesso di migliorare la nostra vita e che sono diventate altrettante gabbie, trappole e crediti da rimborsare. Bisogna recuperare un valore che a mio parere è istintivo nell'essere umano: l'autogoverno, cioè la costruzione di una rete di solidarietà, di mutuo soccorso, di messa in comune dei beni, non solo materiali, per potere Vivere, studiare, consumare, produrre, lavorare con decisione collettiva, e non con l'imposizione delle leggi del mercato. È estremamente difficile ma non impossibile."

Quest'estate ha in particolare permesso di recuperare alcune delle 739 letture in ritardo. Tra queste, il super colloquio di Barbara Balzerani con Lundi Matin-di cosa iniziare il rientro del piede giusto (sinistra).




domenica 2 settembre 2018

Panasonic DMC-FZ1000 50fps Burst mode in action