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giovedì 25 aprile 2013

Les Blank




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In memoria del documentarista scomparso di recente, straordinario esploratore di ciò che sopra ogni altra cosa ci rende umani.




Il 7 aprile dopo lunga malattia si è spento Les Blank, documentarista cui vestiva stretta la definizione. Aveva 78 anni, 53 passati dietro una macchina da presa da quando una proiezione del Settimo Sigillo di Ingmar Bergman lo aveva folgorato lungo il sentiero della sua prima passione, la scrittura. Il suo ultimo lavoro è del 2007, si intitola All in this tea ed è un viaggio sulle tracce di David Lee Hoffman – una sorta di sommelier della bevanda – verso una remota zona della Cina dove crescono foglie di eccezionale qualità. Dura 70 minuti, racconta più cose sul tea di quante ne trovate in cinque monografie sull’argomento e, per quanto il soggetto possa sembrarvi eccentrico, è probabilmente uno dei film più convenzionali dell’intera produzione di Blank, ovvero una Via Lattea che include la storia di come la Polka è diventata uno dei balli più popolari del Midwest portata in spalla fin lì dagli immigrati polacchi, il racconto della secolare fortuna dell’aglio in diverse culture gastronomiche, una mezza dozzina di biografie di musicisti seminali nello sviluppo della cultura sonora americana e infine il suo essay più bizzarro e illuminante, Gap-toothed women, una pellicola del 1987 in cui Les Blank intervista un’infinità di donne nate con uno spazio tra gli incisivi, un inno alla diversità e all’esclusività di ogni individuo nonché l’opera che meglio rappresenta la sua poetica, a fianco di Always for pleasure, incentrato sulla rappresentazione di una serie di tradizioni radicate a New Orleans, la città adottiva del regista nato nel 1935 a Tampa, Florida.
Indubbiamente il lavoro più noto di Blank però è un altro, un documentario del 1982 intitolato Burden of dreams, realizzato quasi come un “making of” del leggendario Fitzcarraldo di Werner Herzog (che aveva invitato personalmente Les Blank sul set) e che a giudizio di molti (compreso il sottoscritto) è un film migliore della pur straordinaria pellicola di cui tratta. In qualità di film girato nel backstage di un altro film, nel palmo di un regista meno ispirato, Burden of dreams avrebbe potuto scivolare empiamente nel generone della riflessione meta-cinematografica oggi assolutamente di moda e già discretamente popolare trent’anni fa e invece le mani di Blank modellano una creatura autonoma, in cui le riprese dedicate alla faticosa produzione di Fitzcarraldo – domare Klaus Kinski, blandire Claudia Cardinale, trasportare un battello in mezzo alla giungla – hanno pari dignità di quelle dedicate a semplici momenti di vita delle popolazioni amazzoniche che vivono nei paraggi del set. Per merito dello sguardo di Blank – discreto ed empatico, partecipe e distante allo stesso tempo – Burden of dreams solleva interrogativi etnografici, a tratti imbarazzanti, sulla legittimità di un’ossessione artistica che sconvolge interi habitat ed esistenze e tratteggia un ritratto, ironico e profondo insieme, dell’ambigua figura di Werner Herzog, l’epicentro di quella ossessione.
Il modo in cui Blank ed Herzog si conobbero merita un paragrafo a parte. Era il 1980 ed Herzog aveva promesso all’amico e documentarista americano Errol Morris che se quest’ultimo fosse riuscito a finire il suo film, Gates of heaven, lui avrebbe mangiato una delle proprie scarpe. Persa la scommessa, Herzog dovette effettivamente mangiarsi una delle proprie scarpe e lo fece sotto lo sguardo della camera di Blank. Il risultato è Werner Herzog eats his shoe, un documentario breve, appena 20 minuti, che segue la preparazione del “piatto” e la sua consumazione mentre Herzog cadenza le sue opinioni circa l’industria dello spettacolo e i suoi effetti sulla Weltanschauung degli individui. Nonostante tutti questi presupposti, Werner Herzog eats his shoe, è uno spettacolo tenero, sicuramente divertente e in qualche modo toccante. C’è un uomo che lancia una guerra santa contro la televisione commerciale, un attimo prima di mangiare una scarpa, che è anche uno dei più grandi registi mai vissuti, ed eppure nelle immagini non c’è un singolo registro fuori posto o sopra le righe.
Nonostante i molti incroci delle loro carriere e la solida amicizia e reciproca stima che li ha legati fino alla fine, le divergenze tra Blank ed Herzog erano tuttavia più numerose delle loro affinità. Entrambi straordinari narratori con un eccezionale fiuto per storie e personaggi non convenzionali, si situavano però agli antipodi nel modo di trattarle. Dove Herzog, constatando i limiti della natura e dell’esperienza umana, li osserva e li commenta con un certo orror vacui carico di pietà ma privo di compassione, Blank li contemplava invece proprio come ciò che rende incommensurabile, unica e piena di senso la nostra condizione di esseri viventi. Non a caso la morte, in quanto limite ultimo di quella condizione, era uno dei temi ricorrenti dell’opera di Blank che amava farne parlare le persone più semplici che incontrava. Persone che offrivano di essa una lettura quasi epicurea come un personaggio di Always for pleasure, intervistato mentre segue un colorato corteo funebre a New Orleans:
You be here today, you’re gone tomorrow, you know. You don’t know what to look for after death. But you can always see what you can see in front of you. But me, you know, I like people to have a nice time, and when I leave the face of this earth, I like a little band behind me, and my friends having a nice time seeing me leave this place. But I’m living now.
A camera spenta, Les Blank era un uomo timido e non particolarmente portato a slanci di affabilità verso il prossimo, lo ammette lui stesso in diverse interviste (e lo si può constatare in questo lungo video), eppure analizzando la sua produzione è impossibile non percepire una profonda simpatia per il prossimo, che si esprime in ogni suo film nella ricerca di quel comune denominatore che ci spinge a costruire della comunità, a ballare la Polka a migliaia di chilometri da dove è nata, a inseguire la migliore qualità di tea, a sentirci speciali per avere una fessura tra i denti o a concepire il folle piano di trasportare una barca nel fitto di una giungla.

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