Ricordo: da bambino
son scappato di casa
che avevo litigato con la mamma.
Di notte poi ho dormito in un pagliaio
(era un cono di fieno con un palo
che finiva con un barattolo di latta).
Se scappassi stanotte
dopo aver litigato col mio amore
e volessi dormire in mezzo al fieno
Sarei schiacciato da un rotolo verdastro
che pesa perlomeno due quintali.
Si sarebbe potuto titolare Senza Foà, questo sobrio pezzo, al cospetto di uno dei figli più illustri di Ferrara. Che, senza voler fare rumore, ieri se n’è andato. Arnoldo Foà è morto a Roma, orfano di un destino con lui poco indulgente che non gli ha voluto regalare una manciata di giorni per fargli compiere 98 anni. Quasi un secolo, denso, intriso di un sangue artistico mai imbrigliato, che Foà ha vissuto da grande mattatore. È stato attore di teatro, di cinema, regista, ma anche scultore, pittore e poeta. Era nato a Ferrara il 24 gennaio 1916. Spesso si definiva un burbero, ma le sue interpretazioni sono state di una generosità e di una grazia rare. Come quando Giuseppe Ferrara lo diresse in Cento giorni a Palermo (il tempo trascorso nel capoluogo siciliano dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa), nel 1984, un film difficile, e dentro a quel film una parte, quella di Foà, se possibile ancora più difficile. All’attore ferrarese toccò difatti il ruolo di Virginio Rognoni (all’epoca ministero dell’Interno), una parte cinematograficamente di estrema ruvidezza perché doveva riunire, soprattutto in quel periodo storico, le varie “anime” di una Democrazia Cristiana zeppa di tentacoli, con gran parte della storia che conta che confermò - e conferma anche oggi - che laggiù, a Palermo, Dalla Chiesa fu mandato per essere lasciato ancora più solo. Ma Foà superò con lode anche quella prova, che resta una delle gemme delle sua carriera. Nel cinema fu un grande doppiatore, e non poteva che essere così per uno con la sua voce. Di famiglia ebraica (lui si dichiarava ateo), si interessa al teatro già universitario, contribuisce alla nascita della Radio Rai e partecipa a molte trasmissioni. Diventano celebri le sue lezioni-dizioni poetiche quando si cimenta, “rendendole” a tutti, tra Dante, Lucrezio, Carducci, apparizioni che Foà pare svolgere volteggiando tra un antro e l’altro della cultura. Dizioni che oggi sono storia e che negli Anni Cinquanta e Sessanta vennero incise sui dischi di vinile. Quella sua voce diventa per gli italiani un’amica. La sua intelligente curiosità lo fa entrare anche in politica, pur se brevemente: alle Amministrative romane del 1960 approda in consiglio comunale col Partito Radicale: con lui ci sono Leopoldo Piccardi e Antonio Cederna. Del teatro, nel frattempo, diventa un gigante: dà prove superbe nel Ritratto di Dorian Gray e in altre opere che sarebbe, ora, troppo lungo ricordare. Saltella tra Hugo, gioca con Quasimodo. Sempre impeccabilmente artista. Il 5 ottobre 1998 il Capo dello Stato, Oscar Luigi Scalfaro, lo nomina Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine al merito della Repubblica italiana. Ma nemmeno la sua città lo dimentica: il 5 giugno 2006 riceve il premio Città di Ferrara, mentre nel 2008 arriva quello della Stampa alla carriera. Una vita, fino a ieri. Quando la sua grande voce si è spenta.
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