giovedì 27 dicembre 2012
MEDICINA INTERCULTURALE
Articolo/recensione del libro di Ivo Quaranta e Mario Ricca sulla MEDICINA INTERCULTURALE pubblicato domenica dal Corriere della Sera (supplemento La Lettura) di ADRIANO FAVOLE
Una decina di anni fa, l’antropologa americana Margaret Lock pubblicò un libro di grande successo (Twice dead. Organ transplants and the reinvention of death, University of California, 2002) in cui metteva a confronto gli atteggiamenti dei nordamericani e dei giapponesi verso i trapianti e, più in generale verso la morte. Frequentando le unità di terapia intensiva dei grandi ospedali, Lock scoprì che in un paese tecnologicamente avanzato come il Giappone i trapianti erano molto rari perché la gente – compreso il personale medico – giudicava innaturale l’idea di morte cerebrale e il prelievo di organi a cuore battente. Inoltre, l’idea di accettare un “dono” di così grande importanza da uno sconosciuto morente, senza dunque la possibilità di ricambiare, suscitava sconcerto e sensi di colpa.
Il corpo in effetti non è soltanto un organismo biologico, ma una complessa costruzione culturale in cui prendono forma credenze, rappresentazioni, concezioni della persona e del suo destino che si manifestano in modo particolare nel momento della malattia e della sofferenza. Ivo Quaranta, uno dei pionieri dell’antropologia medica in Italia (nonostante la sua giovane età) e Mario Ricca, docente di Diritto interculturale all’Università di Parma, aprono il loro recente libro dedicato alla “medicina interculturale” (Malati fuori luogo, Raffaello Cortina, 2012) con un episodio significativo. Un uomo di mezza età, originario della Malesia e da tempo immigrato in Italia, si presenta al pronto soccorso lamentando dolori di fegato. L’uomo parla bene l’italiano e traduce il termine malese hati con “fegato”, una traduzione corretta, ma non del tutto. Nella cultura malese infatti, hati è la sede di quella che noi definiremmo l’intelligenza emotiva. E’, nel caso specifico, il luogo simbolico in cui si manifestano le tensioni e le fatiche di una esperienza migratoria difficile, fatta di ansie per i permessi di soggiorno, di lavori saltuari, di rinunce agli affetti. L’uomo si sente appesantito, affaticato, spossato e narra il suo problema facendo riferimento al “fegato”. Il medico gli prescrive una serie di controlli epatici, senza riscontrare problemi particolari. Dimesso dall’ospedale, il paziente morirà di lì a poco di infarto: il malessere che lo aveva colpito era dovuto a una crisi cardiaca. Forse, senza quell’equivoco, “il malese sarebbe ancora qui a imparare che negli ospedali italiani hati si dice cuore”, scrivono i due autori.
Provenienti da nazioni e gruppi etnici molto differenziati, i migranti arrivati in Italia negli ultimi trent’anni, hanno portato con sé particolari concezioni del corpo e della malattia. Inoltre, essi hanno agito come una sorta di “specchio”, a partire dal quale la popolazione nativa si è scoperta essa stessa più frammentata, plurale e molteplice di quanto non si ritenesse in precedenza. Anche “noi”, a ben vedere, siamo portatori di concezioni del corpo che appaiono piuttosto lontane e a volte in contrasto con il linguaggio scientifico di una medicina fondata sul paradigma biologico riduzionista, per la quale il corpo è un organismo le cui leggi di funzionamento sono state progressivamente e inesorabilmente svelate dalla scienza.
Come cambia (se cambia…) la biomedicina occidentale davanti a questa eterogenea presenza di pratiche e rappresentazioni del corpo? Si tratta soltanto di contrapporre la “verità” della scienza a “credenze” folkoriche irrazionali e persino dannose per l’efficacia della cura? Il libro di Quaranta e Ricca, basato su ricerche condotte anche in ospedali italiani, cerca di rispondere a queste domande e fornisce interessanti proposte operative per la costruzione di una “medicina interculturale”. Per i due autori, non si tratta né di dare spazio a forme di sapere medico “altre” o “alternative” né di limitarsi a una critica del riduzionismo biologico insito nella medicina occidentale. Si tratta piuttosto di constatare che un approccio puramente organico alla malattia è rischioso e spesso compromette la stessa efficacia della cura. I significati che un paziente attribuisce al suo malessere, la narrazione dei sintomi e di frammenti del suo percorso di vita, sono spesso passaggi essenziali per una diagnosi corretta, per la cosiddetta compliance (la “collaborazione” del paziente) e per il successo della cura.
Quando medico e paziente condividono una medesima humus culturale, la traduzione della narrazione soggettiva del dolore e della malattia nei termini del linguaggio scientifico è più agevole, ma ostacoli apparentemente insuperabili sorgono in presenza di pazienti che parlano lingue poco note e soprattutto che fanno riferimento a orizzonti di significato e codici simbolici del tutto sconosciuti al medico.
Durante le sue ricerche etnografiche nel Nordovest del Camerun, Ivo Quaranta scoprì che l’AIDS veniva di solito imputato all’azione della stregoneria. Le organizzazioni sanitarie si battevano per combattere questa credenza che ai loro occhi appariva irrazionale e sembrava favorire il contagio (impedendo di cogliere le “vere” cause della malattia). In realtà, in Camerun come in molte altre parti dell’Africa, il riferimento all’idioma della stregoneria è un modo culturalmente condiviso per riflettere sulle diseguaglianze, sulla povertà, sull’emarginazione. Allo stesso modo, immigrate nigeriane in Italia vittime della tratta e di progetti migratori fallimentari, possono esprimere il loro disagio e la loro sofferenza dicendosi possedute dallo spirito di mami wata, lo spirito del benessere, dell’abbondanza e della ricchezza che le tormenta proprio a causa del loro “fallimento”.
Può oggi la medicina ignorare l’esistenza di questi altri linguaggi del corpo e della malattia? Può una medicina che aspira all’efficacia universale delle cure ignorare gli universi simbolici della stregoneria e della possessione e in generale i linguaggi culturalmente fondati del corpo e della malattia? Come cambiano le responsabilità etiche, ma anche legali dei medici in un tale contesto? Come armonizzare l’attenzione alle narrazioni con i rigidi protocolli e le linee guida del servizio sanitario orientati quasi esclusivamente in un ambito biologico? Il percorso verso una medicina interculturale è senza dubbio complesso e arduo, tanto più in un periodo di “tagli” e riduzioni di spese. Si tratta però, a ben vedere, di una sfida irrinunciabile per una società impegnata a costruire nuove sintesi tra persone e gruppi portatori di diversità culturali. Affinare le capacità di ascolto e la sensibilità interculturale sarebbe un buon modo per ampliare lo spettro dell’efficacia della cura, e risponderebbe al tempo stesso a questioni legali sottese al rapporto medico-paziente: il consenso informato implica infatti che la relazione di cura avvenga nell’ambito di rete di significati almeno in parte condivisi.
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